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Rosina, Carmine, Giacinto

e la piccola Comédie humaine di Cosenza

 

Il libro "Sertorio a quattromani", di Ugo Dattis e Paolo Veltri, 

edito da Pellegrini, trasforma la città e i suoi dintorni in luoghi narrativi,

raccontando vicende  di "persone semplici e meravigliose". 

Francesco Colamino, ingegnere-poeta, lo  ha presentato a Villa Rendano,

tra ricordi personali e memorie comuni

di Francesco Colamino | 18 Febbraio 2020

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Sono i luoghi della memoria, solcati dalle strade della nostalgia. Il titolo del libro viene da via Sertorio Quattromani, che ritroviamo nel vivido quadro che ne fa il presidente Franco Mauro; anch' io ricordo la vecchia chiesa di San Nicola, dove feci la prima comunione, dopo sei mesi di lezioni di catechismo sul tema : -“Chi è Dio?”- -“ L'essere perfettismo..."- e così via, impartite da una pia zitella, detta senza alcun significato dispregiativo, ma solo per definire il suo status,  " 'A vizzoca". La prima comunione la facemmo insieme due fratelli, che, nella foto fatta dal fotografo Ruffolo di via Milelli, compariamo di tre quarti, a mani giunte, in giacchetta con la fascia bianca sul braccio, pantaloni corti, scarpette bianche.

Come ci ricorda il presidente Franco Mauro, tra gli altri negozi, sul lato sinistro andando verso il Carmine c’era il negozio di abbigliamento di Ardes, che noi frequentavamo, accompagnati da Mamma, per farci imporre camicie, pantaloni e pullover in stile a metà tra il seminario e il penitenziario. Ci andavamo perché il magazzino era stato dato in affitto al sig. Ardes da mio nonno Papà Peppe, e Papà, impiegato statale, con moglie casalinga e sei figli,  trovava conveniente scontare gli acquisti sulla pigione. Una condanna che durò fin quando, a diciotto anni, andai a studiare fuori all’Università, e mi fu riconosciuto un mensile per vitto, alloggio, vestiario, tasse universitarie, libri e tutto.

 

Gli altri luoghi sono lo Spirito Santo, La Castagna, La Massa, S. Agostino, San Gatàno, La Carruba.

Dietro lo Spirito Santo, la fabbrica di piastrelle Mancuso e Ferro, da tempo purtroppo chiusa. Erano piastrelle in graniglia, non in ceramica, ma con pregevoli disegni in stile liberty; le troviamo in molti edifici dell’epoca, spesso vengono anche recuperate quando si consolidano i solai.  Quasi di fronte, la fabbrica del ghiaccio, anch’essa chiusa, com’era destino, dopo la diffusione dei frigoriferi.  Ci si andava portando da casa una capace “mappina” o tovagliolo da cucina, nella quale veniva avvolto il blocco di ghiaccio; la mappina, dopo averne annodato le quattro cocche, si poteva prendere come da un manico per trasportare il blocco, a piedi naturalmente; poi, a casa, il blocco veniva deposto nell’acquaio della cucina, di solida graniglia, e lì si rompeva con l’aiuto di un punteruolo di ferro e un martello; si ci potevano fare le granite di limone, o, se fosse avanzato del vino cotto dalla nevicata dell’inverno precedente, anche una deliziosa “scirubbetta”.

Il Ponte di San Lorenzo- o ponte della Massa- ci ricorda l’alluvione del 25 novembre 1959, che spazzò via le bancarelle e i magazzini  commerciali del Lungo Crati.  L’alluvione che io, ragazzino di dieci anni,  ricordo ancora con un senso di angoscia e impotenza, poiché abitavo all’inizio di Corso Telesio.  Il portone di casa si trovò sotto due metri d’acqua, Papà scese a vedere cosa succedeva e risalì dicendo a tutti di non muoversi; Mamma ci chiamò intorno e iniziò a recitare il rosario alla Madonna. Ma noi abitavamo a un quinto piano e per fortuna non avemmo danni, sul momento, benchè tre anni dopo la casa cominciasse a presentare lesioni tali da dover essere evacuata e poi abbattuta.

 

Passato il ponte San Lorenzo, entriamo nel quartiere della Massa, con i suoi vicoli poco conosciuti dietro le facciate che danno sul Crati, fino ad arrivare a San Gatànu , limite Nord, e a Sant’Agustinu, limite Est. Una parte significativa delle storie che troviamo nel libro è ambientata qui e guardando le immagini forse se coglie meglio il significato. Un quartiere popolare, si dice anticamente sede dei vasai, certo di gente che non senza pena si adoperava nel lavoro quotidiano di muratore, di fabbro, di vetturino, di casalinga. Qui vengono ad abitare Rosina e Carmine quando si trasferiscono da Belsito. Qui si trovava la casa a tre piani dello zio Vittorio, con la bella vista sul colle Pancrazio.  Alcune volte i legami affettivi con i luoghi sono più forti del loro valore abitativo, storico, artistico; ma forse sono proprio questi legami quelli che alla fine rimangono di più.

 

Più avanti, entriamo in via Casali e poi in Cosenza Casali. Questi quartieri conservano nel complesso la fisionomia di un tempo, qualche facciata è stata restaurata, qualche negozio è stato trasformato in locale pubblico, la stazione è adesso la sede del Club Alpino, ma ancor oggi si ha l’impressione, percorrendo la via Casali in direzione di Trenta, di lasciarsi alle spalle il caos del traffico cittadino, i rumori, la folla, per penetrare in un mondo che forse aveva il suo senso compiuto cinquanta o cento anni addietro.  Attraversato il passaggio a livello ed entrando in Cosenza Casali, non resta nulla della città, ma l’atmosfera è quella di uno dei nostri paesi, le case sono al più di due piani, i colori tendono al pastello, le auto di passaggio sono rare e anch’esse cercano di far meno rumore possibile.

Questo per quanto riguarda Cosenza. Ma uno spazio tutto loro ce l’hanno il lago del Savuto e la sua Diga, la quale racconta in prima persona, nella parte scritta da due delle quattro mani; e ancora la baracca, il villaggio del Savuto, Bocca di Piazza...per non dire di altre località nel cuore della Sila, ma ai confini dell'immaginario, come Ceci, Gisbarro, Cappello di Paglia...

La bellezza dei luoghi è nota a tutti, ma nei ricordi dell’autore, che sono primaverili ed estivi e non comprendono gli autunni umidi e gli inverni gelidi dell’altopiano silano, questi luoghi acquistano i contorni di un piccolo paradiso in terra. Se, come uno dei nostri due autori ci attesta, le estati al villaggio del Savuto finirono nel 1961, dobbiamo tener presente che si trattava, all’epoca, di un ragazzino di 10 o 11 anni, con due fratelli quasi coetanei, compagni di giochi e di letture di giornalini (Il Grande Blek, Capitan Miki, chi non ne ricorda il formato a  strisce?) e di libri di avventure, I tre moschettieri – del resto letture preferite anche delle altre due mani.

Cosa rimane di tutti questi luoghi? Certo, la barracca della Sila è andata in fiamme, ne rimane solo un cippo con una targa a ricordo del maestro ; il “drugstore” di Bocca di Piazza è un moderno bar-ristoro; a Cosenza, le bancarelle di Lungo Crati non ci sono più, benchè fossero rinate dopo l’alluvione del 1959.  Via Sertorio Quattromani c’è sempre, ma completamente rivoltata, a cominciare dalla chiesa di San Nicola che si trovava al primo angolo a sinistra, venendo dal ponte Mario Martire. Se non ci fossero libri come questo, i luoghi forse sarebbero svuotati di significato, di ricordi, di affetti.

 

Dei personaggi, molti – in particolare quelli di cui scrivono due delle quattro mani – li ho conosciuto di persona o ne ho sentito parlare. Sono personaggi in gran parte positivi, che agiscono per il bene comune e rispettano principi non scritti, forse, ma che derivano da costumi di lunga data : il senso della famiglia, la solidarietà, la generosità. I personaggi negativi sono pochi, per esempio Placido Cortese, che prima mette incinta la fidanzata Caterina, poi va dall’avvocato per farsi restituire per le vie legali i regali di fidanzamento, perché le aveva chiesto “la suprema prova d’amore” , e, avendogliela ella concessa, pretendeva  che fosse suo diritto di lasciarla, ragionando che “da puttana l’aveva presa e da puttana l’aveva lasciata”.  Ma ci pensano i fratelli di Caterina, ovvero i due fratelli Laganà, detti “Lagana e ciciari” , a ricondurlo a più miti consigli tramite i quaranta giorni di guarigione  susseguenti alla strameritata mazziata dagli stessi impartitagli. A parte questo caso negativo e pochi altri, i personaggi sono in perenne lotta con le avversità della vita, a volte con la povertà, con la sfortuna,  ma sono anche dotati di una forte capacità di resistervi, come Rosina, costretta dal marito Carmine a chiudere la propria attività di fornaia a Belsito e a trasferirsi a Cosenza, dove Carmine inizia a fare il vetturino (' u cucchieri) con poca fortuna, e alla fine lei stessa è costretta ad andare a fare la donna di servizio. Come lo zio Vittorio, che dopo aver perso tutto ciò che custodiva nel suo magazzino di pellami sul lungo Crati, ha ancora la forza di ricominciare. Come il camionista Giacinto e la sua innamorata Graziella, protagonisti di una semplice e delicata storia d’amore che si conclude con un matrimonio festeggiato in casa con un grammofono a 78 giri e panini con la mortadella. Personaggi  disponibili ad aiutare il prossimo, come il medico austriaco Sterlinz che, non si sa portato da quali vicende, viene a stabilirsi a Donnici superiore, e tiene la porta del suo studio sempre aperta alla povera gente; come l'avvocato Scarfuglio, socialista, amante della letteratura, invaghito, da adolescente, di Rebecca, la figlia del dott. Sterlinz, ma di un amore segreto e non rivelato. Personaggi a volte segnati  dalla tragedia che portano nell'animo, come lo stesso avvocato, che, dopo la morte  di Rebecca nel terremoto di Reggio Calabria del 1908, per il resto della sua vita non mostrò più alcun interesse per il genere femminile.

La storia raccontata da due delle quattro mani e concatenata attorno a Rosina si localizza più indietro nel tempo, diciamo in pieno ventennio fascista, e l’epoca viene chiusa tragicamente dal  bombardamento di Cosenza da parte degli aerei alleati, il 12 aprile del 1943, con vittime nei viaggiatori nella stazione ferrovia e nei bambini della scuola dello Spirito Santo.  

Tra i personaggi positivi, la figura del Maestro e quella della moglie – la zia Ida –raggiungono quelle corde del cuore che teniamo riservate al ricordo dei genitori.   La zia Ida, ovvero la mamma di uno dei due autori, detta “zia” da tutti quelli che la conoscevano per la sua materna accoglienza ai bambini della scuola, sempre pronta a preparare panini e pranzi per tutti i vicini del villaggio. E’ ella che frena il marito o i figli nelle decisioni impulsive, che fa valere la riflessione oltre che l’affetto, ed è l’elemento di unione di tutta la famiglia.  Ella, dopo una lunga e sofferta malattia, dice come ultime parole “finiscila ‘i fa’ ‘u scunchiudente” al figlio vorrebbe che farla provare ad alzarsi e ad andare da sola in cucina.

Il Maestro è la figura che riunisce e porta dentro di se stesso i caratteri del padre e quelli dell’educatore. Se pensiamo al valore dell’insegnamento, se pensiamo alla prima formazione come a un’impronta che ci rimane per tutta la vita, bene, sono i nostri maestri che ce l’hanno data ed è a loro che tutti – o almeno la maggior parte di quelli che conosco - pensiamo con riconoscenza e affetto. Così si spiegano le lacrime degli uomini provenienti dalle diverse contrade della Sila, che dopo quarant’anni ancora ricordano con commozione gli insegnamenti del Maestro.  Il Maestro qui, come già detto, è anche il padre, non solo l’educatore. Il padre che mette avanti a tutto il lavoro e gli affetti, come avveniva una volta; il padre che sa sacrificarsi per i figli ed essere loro di esempio, il padre che è l’elemento di identificazione per tutta la famiglia.

Il Maestro, nel racconto di due delle quattro mani, passa gli ultimi anni della sua vita da solo e privo della memoria recente, come a molti anziani accade.

E’ a lui che il mio amico Franchino u funtanaro, personaggio  del popolo, ha dedicato alcuni versi, al momento della sua scomparsa, intitolati appunto “Il maestro”.

IL MAESTRO

(Per la morte del padre di carissimi amici)

Dopu ch’ è morta Mamma

Papà è rimastu sulu,

ma appriessu ad iddra l’anima

vulìa pigliari ‘u vulu

e cumu ‘ntra na neglia

 n’ha fattu giri e giri

 prima ‘i putì truvari

 ‘a via ppe si nni jiri.

All’urtimu è partutu

e nenti s’è purtatu

sulu ‘u vestitu buonu

na picca cunsumatu

e i scarpe,

ca ccussì po’ caminà luntanu,

versu i scole d’u cielu,

ed è perciò ch’i manu

li su’ rimaste ferme

 dintra a chir’attu stessu

 ca iddru ppe tant’anni

 cci ‘ avìa tinutu ‘u gessu.

 

Per concludere, spero che i nostri autori, se gliene concederanno il tempo l’impegno attuale di ufficiale medico imbarcato sul cargo battente bandiera panamense di uno dei due, e il proposito di un viaggio fino alla Terra del Fuoco del secondo (vedi biografie in copertina), vogliano prendersi anche l’impegno

di scriverne un altro, di libro.

Come avviene per questo,  leggerlo farà bene a tutti.

                                                   

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