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Amalia Cecilia Bruni, 
ricerca, passione e serendipity,
così ricostruisco gli
alberi genealogici per combattere  l'Alzheimer
di Donata Marrazzo | 2 Febbraio2018

Dopo la laurea  e la specializzazione all'università di Napoli, la famiglia avrebbe voluto vederla sistemata a fare endoscopie all'Istituto Pascale,  diretto allora da un cugino materno. Ma per Amalia Cecilia Bruni gli impedimenti erano almeno due: il desiderio di tornare giù con quell'idea romantica di  "fare qualcosa" per la propria terra. Ma soprattutto, dopo l'internato  nella Clinica Neurologica diretta dal professor Giuseppe Andrea Buscaino, la voglia di svolgere l'attività specialistica. In pochi giorni prepara le valigie e torna in Calabria: resta due anni al Pugliese di Catanzaro per il tirocinio. Poi, dopo  un concorso, entra all'ospedale di Lamezia, servizio di Neurologia.  Ama lia Cecilia Bruni realizza, per cominciare, il suo sogno di bambina: «Intorno ai 13 anni, quando ero negli Scout, mentre catalogavo libri per un centro culturale, un lavoretto con cui raggranellare i soldi per comprare le pentole per il campeggio, mi sono imbattuta  in un trattato di psicoanalisi - ricorda - Quelle descrizioni così particolareggiate dei comportamenti umani, comprese le anomalie, mi affascinarono. Fu come una folgorazione».  Così, anni dopo, in Calabria,  nonostante la Calabria (o forse per  merito di questa regione, della sua storia mutevole , stratificata,  incrociata con quella di altre culture, di altri popoli, di altre lingue) si incammina lungo un sentiero di ricerca che la porterà a diventare una scienziata di fama mondiale. «C'è voluto tanto studio, ma  spesso è stata questione di serendipity», dichiara sorridendo Amalia Cecilia Bruni.

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Nicastro , Girifalco, Serrastretta, le prime tappe della ricerca

La neurologa, di origini girifalcesi («per via di mia madre che era figlia del medico condotto di Girifalco») è la direttrice del centro regionale di Neurogenetica di Lamezia Terme, in provincia di Catanzaro, riconosciuto a livello internazionale come presidio d'eccellenza per lo studio delle demenze degenerative, che ha contribuito all'isolamento di uno dei geni responsabili della patologia (PS1). I suoi studi sull'Alzheimer si sono combinati con quelli dei mostri sacri della neurologia mondiale come Robert Feldman, Jean François Foncin, Ron Polinsky, Luigi Amaducci.  Ma Cecilia Amalia Bruni ha avuto un vantaggio in più: poter valutare descrizioni cliniche, dati e informazioni estrapolati dai documenti dell'archivio dell'ex manicomio psichiatrico di Girifalco. Più di 16mila cartelle cliniche, di cui 6mila digitalizzate con un progetto realizzato  in collaborazione con l'Università della Calabria. In mezzo c'era quella di Angela, morta a 38 anni, originaria  di Nicastro.  Il lungo lavoro fu  quello di ricostruire l'albero genealogico della paziente alla quale nel 1904 fu diagnosticata la malattia di Alzheimer, due anni prima di quella descritta dallo psichiatra e neuropatologo tedesco  da cui la patologia prende il nome. Risalendo ancora  più indietro nel tempo, fino Serrastretta, primi  anni del '700.

La neurologa Amalia Cecilia Bruni

Qui il diario della scienziata: ritorno a luoghi, persone e avvenimenti che hanno costellato i suoi esordi da neurologa,  alle prese con gli studi sulle demenze degenerative. Un documento prezioso, inedito, scritto (e aggiornato) in occasione dei 10 anni del Centro di Neurogenetica di Lamezia. Che parte da Boston e  passa per Nicastro, Girifalco, Serrastretta, Los Angeles,  Parigi, Toronto. Lei lo chiama  Amarcord... (Per gentile concessione)

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Scartabellando negli Status Animarum

Le ricerche sulla forma ereditaria dell'Alzheimer (la più rara) condotte dalla studiosa calabrese non si svolgevano solo in laboratorio, ma anche negli archivi comunali,  in quelli degli ospedali  e nei registri dei parroci, gli Status Animarum: funzionavano come dei censimenti, eseguiti nel periodo pre-pasquale, che valutavano la presenza dei parrocchiani in chiesa.  «Quegli elenchi che riportavano le composizioni dei nuclei familiari, hanno reso molto più facile le ricostruzione genealogiche  - racconta la Bruni - Grazie a parroci particolarmente zelanti, trovavamo a margine addirittura le cause di morte. Non che questo ci servisse per fare diagnosi, le cause di morte non sono mai state attendibili, ma ci servivano invece per escludere la diagnosi. Sapere che una certa persona era morta  a 45 anni precipitando da una rupe o in corso di vaiolo,  per noi fceva la differenza». È così che nella chiesetta del rione San Teodoro di Nicastro, è stato possibile risalire a Vittoria G, una donna che andò in sposa a Domenico M. il 6 ottobre 1737. Partorì 9 figli e morì all'età di  43 anni. Era la prima trasmettitrice obbligata della malattia, appartenente all' enorme "famiglia N"  individuata dai ricercatori, quella dei malati riconducibili  all'area di  Nicastro. Da lei discenderanno tutti i 76 ammalati di Alzheimer ereditario, a esordio precoce, sparsi nel mondo, valutati dalla Bruni e dai suoi colleghi coinvolti delle ricerche.

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Il puzzle dell'Alzheimer

Un puzzle composto attraverso verifiche, comparazioni, teoremi statistici e controlli incrociati. Che parte da Jean François Foncin, neuropatologo alla Salpetrière di Parigi:   si ritrova per le mani un articolo  riguardante  alcuni casi descritti da Robert Feldman (neurologo a Santa Fe). Quello di Caterina, ad esempio. Il medico francese legge in fondo al testo i ringraziamenti all'Ufficiale di Stato Civile di Catanzaro che aveva collaborato allo studio. 

I sintomi  di Caterina riportati da Feldman sono sorprendentemente uguali a quelli osservati da Foncin su una sua paziente,  Maria,  42 anni, che dopo aver partorito il suo ultimo figlio, ha cominciato ad avere importanti variazioni del comportamento. Il marito  riferisce che nella famiglia di sua moglie "tutti muoiono con gli stessi sintomi".   

Caterina era morta a 38 anni. Ma la  storia della sua malattia era andata avanti: una figlia, emigrata in America, aveva portato e trasmesso  ai discendenti (anche loro poi studiati da Feldman) il gene mutato dell'Alzheimer. È così che la famiglia N acquista un ramo americano. Caterina era la mamma di Angela, originaria di Nicastro. A ricostruire la storia  è  Cecilia Amalia Bruni che si imbatte per caso (ecco la serendipity) in alcune lettere scritte da Foncin: alla luce della pubblicazione del collega americano Feldman, chiedeva alle strutture di Lamezia collaboratori per lo studio della  famiglia emigrata a Parigi. Cecilia Amalia Bruni lo contatta. Ha a disposizione le cartelle cliniche dell'ex Op di  Girifalco. Incastra un pezzo nell'altro. Maria entra della discendenza 60 anni dopo.

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L'errore genetico che determina la malattia

«È una cascata di eventi che determina la malattia di Alzheimer. Li abbiamo individuati quasi tutti ma ancora non riusciamo a scrivere il lieto fine - ammette la neurologa - Un misterioso interruttore biologico  innesca la malattia. Ci sono voluti oltre 30 anni per risalire alle sue origini e 11 anni di studi affannosi di biologia molecolare per isolare il gene alterato».  Il "mostro", l'AD3, (detto in seguito PS1) è stato catturato nel maggio del '95: aveva la stessa mutazione nelle famiglie analizzate, dunque, un' origine comune. Gli studi condotti dalla Bruni e dal suo team furono pubblicati su Nature.

La patologia, nella sua forma più diffusa,  riguarda 600mila persone e cresce con l'invecchiamento della popolazione.  «Lentamente e inesorabilmente, ti spogli delle tue facoltà, ti riduce a un vegetale. E se è tristissimo, quando questo accade più frequentemente, a 70-80 anni, è tragico quando, per un errore genetico, come nei miei pazienti, tutto ciò accade a 40 anni!».

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La ricostruzione degli alberi genealogici

«Abbiamo ricostruito un albero genealogico che, a partire dal 1600, racchiude oltre 34.000 soggetti sparsi nei secoli e per il mondo che fanno parte di una unica immensa famiglia. È in questa famiglia che si trasmette, senza risparmiare alcuna generazione, l'Alzheimer a esordio precoce, quello ereditario. Sono stati identificati almeno 147 malati e 21 trasmettitori obbligati che hanno presentato e presentano una stessa forma della malattia di Alzheimer e ovviamente una stessa causa. Il modo e la sequenzialità sono sempre uguali nel tempo e nello spazio. Chi è malato la trasmette alla metà dei figli. Non ha importanza essere nati a Boston e Parigi o a Lamezia. Non ha importanza essere vissuti prima o dopo la scoperta degli antibiotici».  Uno studio che è  un patrimonio mondiale al quale hanno contribuito in modo decisivo i calabresi, sia gli scienziati  sia  le famiglie colpite  dalla malattia che spontaneamente si sono sottoposte alle indagini. E la ricerca continua: attualmente sono in corso di valutazione i dati riferiti a nuovi studi sulle forme genetiche, eseguiti su soggetti a rischio dalla nascita.

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Il dolore cronico a Nardodipace

Il metodo di studio della Bruni  è tornato utile anche per un'indagine sulla popolazione di Nardodipace (Vibo Valentia) condotta 5 anni fa. La neurologa ha affiancato l'endocrinologo Giovanni Cizza, del National Institutes of Health,  in una ricerca sulla fatica cronica, identificando le mutazioni del gene della proteina di trasporto del cortisolo associate ad un quadro clinico di dolore cronico. I risultati sono stati pubblicati  sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism. Una precedente indagine era stata condotta da un medico australiano su una famiglia originaria del posto, emigrata in Australia.

Rita Levi Montalcini e Amalia Cecilia Bruni

Rita Levi Montalcini a Lamezia

C'era Rita Levi Montalcini, Premio Nobel per la medicina nel 1986, accanto alla Bruni quando, prima della nascita del centro di neurogenetica, aprì a Lamezia Smid-Sud, Studio multicentrico italiano per la demenza organizzato dal neurologo toscano Luigi Amaducci.  Parteciparono i migliori scienziati. «Avevamo finalmente un grande tavolo dove poter srotolare gli alberi genealogici. Un computer per poter calcolare direttamente i nostri dati, fino a quel momento inviati a Parigi per l’informatizzazione. Anche il sogno telematico dell'epoca, il fax, era ormai a portata di mano! Non avremmo più dovuto aspettare 15 giorni per una risposta, avremmo avuto colloquio in tempo reale con i collaboratori di svariate parti del mondo che stavano diventando numerosi». Un'esperienza durata pochi anni: «La ricerca veniva messa in discussione, considerata un lusso superfluo, senza speranza. Ma era  quell'idea nuova  di coniugare la storia e la tecnologia americana, la rivisitazione scientifica dei caratteri dei calabresi,  di ricercare nella vita chiusa dei piccoli paesi,  nella prolificità, nell' "aggregazione tribale" delle famiglie, che destava perplessità. Il progresso aveva inculcato  l'idea che per fare ricerca fossero necessari solo  attrezzature e macchinari». Da qui  è partito il  centro di Neurogenetica: un laboratorio in cui coinvolgere i calabresi, rendendoli  soggetti attivi, i promotori della ricerca.

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La chiusura annunciata

La Regione Calabria, con la legge n.37 del 10.12.1996 ne ha sancito la costituzione. E  11 anni dopo, una legge regionale (n°9 dell'11.05.2007) ne determinava il finanziamento per 500mila euro annui. Ma di fatto, dal 2010 il commissariamento della Sanità regionale ha progressivamente definanziato la struttura. Il centro, conosciuto nel mondo per l'eccezionale  livello delle sue ricerche, quei soldi non li ha mai visti. Amalia Bruni amaramente ne ha annunciato la chiusura per mancanza di fondi.

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Le prospettive in attesa che il centro di Neurogenetica diventi un Irccss 

Ma in una recente riunione con  il delegato regionale alla Sanità Franco Pacenza  è stato stabilito che «per il 2018 saranno destinati al centro di Neurogenetica 200mila euro e assegnate alla struttura, con il coinvolgimento della Asp di Catanzaro, un neurologo e tre unità supplementari. L'obiettivo finale è trasformare  il centro regionale di Neurogenetica in una gemmazione degli Irccs, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico». La Bruni per il momento sta a guardare. Ma non per molto: «La comunità scientifica mondiale segue con apprensione l'evoluzione della situazione. E io non intendo buttare all'aria il lavoro di una vita. Un impegno eccezionale che ha coinvolto anche la mia vita personale, mio marito e i miei figli.  Qui corriamo il rischio di diventare un "visitificio".  Invece serve fare ricerca.  Del resto, nonostante tutta la mia disillusione, ho ancora nella testa quell'idea romantica della mia gioventù: fare qualcosa per la mia terra, contribuire al cambiamento».

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